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Dalla parte del divano – I finali

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Benvenuti all’ultima puntata di ‘Dalla parte del divano’, la rubrica che ha aspettato la sua ventesima occorrenza per salutare tutti e, come dicono i giovani lombardi, menare le tolle. Diciamocelo pure: dopo quasi un anno esatto di minchiate mi dispiace un sacco chiudere baracca; d’altra parte se sono finiti Six Feet Under, Firefly e Better Off Ted, ce ne faremo una ragione e ci leccheremo le ferite, magari cauterizzandole con lo zippo di Serenity.

Alla fine, comunque, l’inghippo è sempre quello: la serialità è tale solo se, dentro di sè, inscrive la sua fine. Il senso ritmico, e perché no melodico, dell’alternarsi tra pieni e vuoti secondo cadenze definite (con la piccola eccezione che ci farà aspettare un lunghissimo anno, maledetti) (say my name!) trova la sua risoluzione finale nella conclusione, quell’ultima vibrazione che dà il senso a tutto ciò che è stato prima.  Pletore di vecchi tromboni ingobbiti su tomi polverosi hanno blaterato per anni un solo semplice concetto: non si può valutare un processo in divenire guardandolo dall’interno dello stesso sistema di riferimento; bisogna aspettare una rottura, bisogna aspettare che finisca.

Se qualcuno questiona il mio approccio all’immateriale, allo spirituale (dio, provvidenza, anima, karma, destino, insert name here), io rispondo che credo nella narratività. Credo cioè – ma sul serio, eh – che le cose del mondo, compreso ciò che ci accade singolarmente e come comunità, funzionino in maniera narrativa, secondo una struttura profonda che segue logiche di causa, effetto e trasformazione. Questo perché la nostra testa, e il nostro linguaggio, organizzano il mondo secondo logiche narrative: tutto quello che facciamo e tutto quello che siamo sono delle storie, non conosciamo nessun altro modo per porci al mondo e per organizzare il mondo se non attraverso storie: pattern più o meno fissi che, avendo una ricorrenza così standard, paradossalmente possono, in superficie, essere talmente vari e inaspettati da nascondere e abolire la propria natura.

Orbene, il nostro cervello è settato sulla terminatività: le cose, per essere tali, devono finire, altrimenti si passa all’ontologia, alla trascendenza e ad altre questioni talmente noiose che mi stanno sbadigliando pure i polpastrelli. Quando allora una serie tv – o una rubrica – annuncia la propria conclusione, al netto di problemi “tecnici” (non la guarda/legge nessuno, i creatori non hanno più idee, è successo qualche marone, fa cadere in un sonno talmente profondo che quando ti svegli ti sembra che sia questo, il sogno, e quella di prima la realtà), significa che ha concluso un percorso che, guardato a ritroso, si scopre essere canonicissimamente narrativo. A quel punto può entrare legittimamente nella cultura, far parte di una costellazione di artefatti culturali in cui inserirsi nella propria unica, perfetta e splendente rotondità.

Grazie a Serialmente, che è un sito fichissimo, grazie a Chiara Bab che mi dice fai quello che vuoi, grazie a Kaw che scrive come un campione (si vede che è una cosa di famiglia), grazie a Marioplanino che mi ha promesso una pinta di birra appena scendo a Napoli, grazie a Giovanni di Giamberardino, con cui mi sono scoperto d’accordo su un sacco di cose un po’ spinose (LOST, anyone?). E grazie a chi ha letto, commentato, condiviso e si è divertito insieme a me. Questa è l’ultima puntata di ‘Dalla parte del divano’, ma presto, su questi schermi, una nuova rubrica. Giusto il tempo di inventarmela.

IL FEDELISSIMO

Questo particolare spettatore pensa alle serie tv preferite come a dei vecchi amici che nel tempo gli hanno voluto bene e a cui ha voluto bene. Assapora ogni puntata, riempie di pacche sulle spalle il televisore e, quando finisce tutto, si fa una lacrimuccia ma va a letto contento. Non giudica una serie dal finale, anche se è sottotono o non conclude adeguatamente tutte le premesse, soprattutto se quella stessa serie gli ha regalato così tante gioie nel corso degli anni. La difende strenuamente e gode per la sua perfetta completezza, perché la completezza è l’unica perfezione possibile.

IL PIAGNONE

Il piagnone ci sta proprio male quando finisce la sua serie preferita. Già appena inizia la penultima stagione comincia a lamentarsi agli aperitivi, annacquando con le sue lacrime tutti i Negroni della cumpa, che già costano otto euro, almeno beviamoli come si deve. Quando finalmente arriva l’ultima puntata cerca di procrastinarne la visione il più possibile, inventando scuse con se stesso e cercandosi di convincere di avere effettivamente una vita e cose da fare al di fuori del divano. Poi alla fine cede, si arma di uno scatolone di fazzolettini e si lascia andare per l’ultima, lacrimosa cavalcata.

IL “SOTTO CON LA PROSSIMA”

A questo ruolo attanziale non interessa nulla della ciclicità delle serie, della rotondità nella completezza e altre baggianate. E’ finito Lost? Che problema c’è, sotto con la prossima! Hanno chiuso Studio 60? Benissimo, avanti un altro. Ovviamente questa immonda insensibilità si riverbera in tutti gli aspetti della sua vita: una volta, pensate, ha buttato una bottiglia di plastica nel sacco della carta, se ne è accorto in tempo ma ha fatto spallucce.

IL NEGAZIONISTA

Il negazionista semplicemente non accetta che una serie possa finire. Non è pronto per sostenere un dolore così risolutivo, dunque adotta un semplicissimo metodo: non guarda le finali. Guarda fino alla penultima e poi basta. Così nella sua testa, e nel suo cuore, i personaggi tanto amati rimangono in un limbo di indecisione, in cui il loro arco narrativo è già ormai segnato, a volte prevedibile, ma loro restano sospesi, attanagliati alla loro penultima azione, come se fossero presi nell’ambra.

E voi? Come reagite ai finali? Evviva negare l’evidenza! Evviva Serialmind… oops, scusate, è che il nome è così simile.

EVVIVA SERIALMENTE!

 

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